martedì 19 novembre 2013

film La Prima Neve

Allego una recensione del film "La prima neve", che stanno proiettando in questo periodo.
A me è piaciuto e condivido il pensiero di Luca Barnabè, critico cinematografico, che potete leggere:

La prima neve
È un piccolo shock visivo quello proposto da Andrea Segre con La prima neve (laprimaneve.com), prodotto dalla Jolefilm di Marco Paolini e da metà ottobre nelle sale. Un racconto di montagna che ha un aspetto spoglio e un sapore antico, ma al contempo conficcato dentro l’oggi: l’asilo politico richiesto da un uomo africano in fuga. È un’opera in cui perfino i sogni hanno colori «concreti», paiono reali, tangibili e solo il rosso di una maschera o la luce del sole sono appena più accesi del verosimile.

«È tutto così difficile», osserva smarrito il protagonista Dani (Jean Christophe Folly). «Scegliere i vestiti, camminare, tagliarsi le unghie». Dani è un giovane padre del Togo, fuggito dalla guerra in Libia. Ha trovato accoglienza con la figlioletta in Trentino, nella valle dei Mocheni. La madre della bambina è morta durante il parto e l’uomo sembra avere perso ogni voglia di vivere e interesse per la piccola. Trova lavoro come falegname e aiuta Pietro (Peter Mitterrutzner) a costruire arnie per api. Fa amicizia con il nipote di lui, Michele (Matteo Marchel), orfano di padre. I luoghi e gli affetti sembrano avere legami indecifrabili. Gli oggetti e l’agire - anche l’agire ribelle come una fuga da scuola - danno una dimensione e un senso ai giorni.

Il legno, la neve, i volti, il miele spalmato su una mano. Ogni immagine del film è evocativa, pur nell’inverosimiglianza di certe scelte di racconto (un bambino orfano di padre fa amicizia con un padre anaffettivo). Ogni inquadratura risulta «tangibile» con lo sguardo, senza orpelli, a differenza delle icone posticce e catodiche odierne. Come a dire: bisogna «rifarsi gli occhi» per ri-trovare un equilibrio, per tornare anche a sognare in maniera «naturale», per non essere fagocitati dall’assurdità del mondo contemporaneo, in cui i colori fasulli e la banalità hanno preso il posto della realtà, dei colori «veri». Non un’apologia tout court della vita di montagna (che qui è la causa di una perdita atroce), ma la consapevolezza che solo recuperando uno sguardo «naturale», senza paraocchi, possiamo ricominciare a vedere anche le persone che ci circondano, mettere a fuoco la sofferenza degli altri, dunque anche la nostra.

Non a caso Dani e Pietro usano resina naturale di un albero per colorare le loro arnie. «Le cose che hanno lo stesso odore devono stare insieme», osserva Pietro. Legno con miele, legno con resina.
Andrea Segre, autore di Io sono Li, ha dedicato una serie di documentari ai migranti (Come un uomo sulla terra, Mare chiuso). Qui il suo sguardo si pone spesso ad altezza di bambino, come suggerendo che proprio dall’innocenza e dalle nuove generazioni meticce può nascere una rivoluzione - almeno del sentire - perfino nel nostro Paese invecchiato e incattivito. Anche la giusta gradazione dei colori e della luce possono aiutarci a ritrovare il senso dell’orientamento.

1 commento:

Unknown ha detto...

amMichè mettece pure la fonte da dove prendi gli articoli. se sa mai...

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